Teatro

'LUOGHI SICURI. Festival di apertura della Casa del Teatro' a L'Aquila

'LUOGHI SICURI. Festival di apertura della Casa del Teatro' a L'Aquila

E’ durata quattro giorni, dal 03 al 06 novembre 2011, l’inaugurazione organizzata dagli Artisti Aquilani per presentare il loro spazio teatrale chiamato “La casa del Teatro”, situato in una località chiamata, significativamente “Piazza d’Arti”, a L’Aquila.
Sono stati 4 giorni intensi, con conferenze e spettacoli teatrali, interventi di artisti, studiosi di teatro o esperti in altre discipline (come psicologia e architettura) che andavano da mattina a sera, lasciando a malapena lo spazio per pranzare o cenare.
Il titolo dato alla lunga inaugurazione è stato: “Luoghi sicuri. Festival di apertura della Casa del Teatro”.
Non voglio qui fare una relazione dell’intero evento, ma data l’eccezionalità della cosa, mi limiterò a ricordare alcuni passaggi che ritengo significativi per la conoscenza dell’arte teatrale e della cultura degli Artisti Aquilani.

Cominciamo col dire che lo spazio denominato “La Casa del teatro” non è una novità per L’Aquila. Infatti già da prima del sisma del 09 aprile 2009 esisteva un luogo con lo stesso nome. Era situato nel centro storico del capoluogo abruzzese ed era stato gestito da studenti universitari ed esperti di teatro appoggiati dai Professori Ferdinando Taviani e Mirella Schino dalla cattedra di Studi teatrali dell’Università degli Studi dell’Aquila, Facoltà di Lettere e Filosofia.
Immagini al riguardo sono state mostrate in un video commentato dal regista Fabrizio Pompei che ha ricordato come in quel luogo abbiano lasciato le loro orme anche Eugenio Barba e Renzo Vescovi.
I tempi cambiano. Il nuovo spazio inaugurato di recente non vedrà la partecipazione attiva dell’ateneo aquilano; ma, poiché le amicizie restano, alla perdita dell’aspetto burocratico-accademico c’è da scommetterci che si sostituiranno i rapporti artistici-affettivi con gli artisti conosciuti in questi anni e che i legami intessuti negli anni costituiranno l’humus dal quale scaturiranno le attività.
Le motivazioni della perdita sono varie. Innanzitutto va detto che la Professoressa Mirella Schino non fa più parte dell’organico dell’Ateneo aquilano. In secondo luogo, la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi dell’Aquila sta affrontando una grave crisi che vede la riduzione dei corsi attivati e delle risorse spese per le relative attività. C’è poi il fatto che il Professor Ferdinando Taviani al termine di questo anno accademico andrà in pensione. Infine, la struttura di “La casa del Teatro” è stata acquistata in toto dagli Artisti Aquilani, in collaborazione con Arci e l'altra associazione cultural-teatrale che gestisce lo spazio, cioè Teatrabile, senza il contributo di altri enti: ragion per cui è un bene di loro proprietà e lo gestiranno nei loro interessi. Certo, come dice il proverbio, “buon sangue non mente”, di conseguenza già si può immaginare che le attività proposte saranno, se non uguali, almeno simili a quelle che erano attive prima.
Il ricordo delle attività passate non resterà solo nella memoria di chi c’era o di chi l’ha sentito dire, ma anche materialmente; infatti, la sera del 03 novembre, primo giorno della lunga inaugurazione, fuori dal teatro è stata posta una targa in ricordo di una giovane studiosa-regista teatrale aquilana, formatasi con i Professori Taviani e Schino, che frequentava pure l’ambiente dell’ISTA e dell’Università del Teatro Eurasiano e che proprio nella Casa del Teatro “vecchia” (in viale don Bosco) ha visto il debutto della sua ultima pièce, “Se io partissi”, prima di perdere la vita nel sisma del 06 aprile 2009: Noemi Tiberio.
Della vecchia “Casa del teatro”, nella nuova sede inaugurata sono rimaste alcune sedie e i gobbi neri, cioè dei teli che, cuciti insieme sono diventati il fondale dell’attuale “Casa del teatro”.
Proprio per l’interesse psicologico e materiale che i professori Taviani e Schino hanno avuto nell’”invenzione” del primo luogo denominato “Casa del teatro”, di certo non potevano mancare all’inaugurazione di questo nuovo spazio. Tanto che il loro intervento è stato uno dei primi, collocandosi nel pomeriggio del 03 novembre, dopo che la mattina (in loro presenza) era stata fatta l’inaugurazione ufficiale, con le autorità di rito, a cominciare dal Sindaco di L’Aquila, Massimo Cialente, il quale ha promesso di costruire una piazza vera nello sterrato antistante il teatro.

In questo luogo, lo scenografo della Compagnia teatrale Proskenion, Fabio Butera, ha realizzato con i sampietrini raccolti nel centro martoriato di L’Aquila, un labirinto con al centro una marionetta (che si chiama Maria e che è stata donata dalla compagnia calabrese agli Artisti Aquilani) e un frammento dell’opera teatrale “Macerie” di Maria Ficara (della compagnia Proskenion) che recita:
             “A quelli che hanno perso lo stupore, e con esso lo sguardo,
              non sorprenderà che io danzi immobile con il vento.
              Sono parte dell’ordine invertito,
              delle risposte senza domande,
              dei fiori senza radice,
              dei giorni senza passato.
              Le pagine strappate si sono confuse,
              le storie non iniziano… e non finiscono.
              Si intrecciano all’infinito,
              e non raccontano niente.”
I rapporti dei componenti del gruppo degli Artisti Aquilani e della Casa del Teatro “vecchia” con Proskenion sono di antica data (poiché risalgono a più di 10 anni fa). L’installazione di Butera ha una valenza molto forte.
Il labirinto ha una simbologia antica. Sono le porte del cielo. E’ un percorso iniziatico, un po’ come la discesa di Dante agli Inferi: la strada è una, ma è tortuosa. Ho chiesto a Fabio Butera il perché di quella installazione ed egli mi ha risposto che ci sono due motivi. Il primo è che voleva dare un senso alla piazza vuota e piena di brecciolino. Quindi un segno evocativo. Il secondo motivo, invece deriva dal fatto che nel 1998 il Proskenion mise in scena una pièce, scritta da Maria Ficara, per la regia di Claudio La Camera, dedicata al terremoto di Reggio Calabria e Messina, con 110 mila morti (quindi tutte le famiglie hanno qualcuno che è morto in quell’occasione!). Nel 1999, Ferdinando Taviani, Mirella Schino e Nicola Savarese, a Scilla (RC), in una sessione degli incontri dell’Università del Teatro Eurasiano, videro un frammento di quello spettacolo, a cui erano state aggiunte la maschere della commedia dell’arte interpretate da Nino Racco e Valerio Apice. Da lì nacque l’idea dello spettacolo “Pulcinella a pezzi” ed il successivo viaggio a L’Aquila con la nascita di una collaborazione all’interno dell’ateneo aquilano. Perciò il legame non è solo simbolico: un legame affettivo-lavorativo tra i due gruppi teatrali e un legame doloroso-simbolico per il fatto del terremoto che, in tempi diversi,  ha devastato le città calabresi e sicule e il capoluogo abruzzese.
L’auspicio, dice, è che quando la piazza sarà realizzata, nel centro rimanga l’immagine di questo labirinto fatto di sampietrini.

E’ per tutto ciò che i primi interventi dopo l’inaugurazione ufficiale alle presenza del Sindaco, sono stati, nel primo pomeriggio, quelli dei professori Ferdinando Taviani e Mirella Schino.
I loro discorsi sono sempre molto particolari: come ha detto l’attore Sergio Bustric alla fine della serata, assistendo all’intervento della Schino e di Taviani sembrava di guardare un pezzo di Beckett. Nel loro caso, infatti, non si tratta mai (e posso dirlo da loro ex-allieva in ben due corsi di laurea magistrale!) di assistere a lezioni o conferenze su un dato argomento nel senso scolastico del termine, ma neanche nel senso organizzativo del termine; piuttosto si tratta, quasi sempre (come in questo caso) di riflessioni e disquisizioni dialettiche dall’andamento monologante (data la doro esperienza drammatica) e spettacolare. Tanto per cominciare dall’aspetto visivo, non si sono seduti dietro il tavolo predisposto per i relatori, ma, come fossero dei padroni di casa, si sono messi a proprio agio dalla parte davanti: la Schino seduta sul tavolo, Taviani su una sedia dalla quale “litigava” con Clown Ciambella, il valletto terribilmente gentile e ordinato (a modo proprio) che, secondo il professore, gli rubava la scena!

Il tema del discorso era “I luoghi della memoria e dell’illusione” che serviva a sottolineare il ricordo di quello che c’era prima (del sisma) a livello teatrale per loro. Ma anche gli aspetti più antropologici del tema. I due professori, però, hanno pensato bene di aggiungere una specifica/sottotitolo: ”Cominciare e ricominciare”. A spiegare il perché è stato il professor Taviani. Il sogno, dice lui, non è quello di essere nella mitica stanza 26 (cioè l’aula dell’ateneo aquilano situata presso Palazzo Camponeschi nel centro storico di L’Aquila, dove egli e la Schino hanno fatto lezione per quasi tre decenni) e neanche di essere nella vecchia “Casa del teatro” presso i Salesiani in viale don Bosco (nel centro storico del capoluogo) in quanto quegli ambienti non ci sono più. Ecco perché non si tratta di “cominciare” a fare qualcosa, ma di “ricominciare”. Per spiegare ulteriormente il concetto si rifà al mito della Fenice e al Teatro della Fenice di Venezia. Il mito della Fenice è quello dell’angoscia e della dannazione, in quanto dopo essere bruciata non “ricomincia” in maniera più adatta agli eventi, ma “comincia” sempre uguale pur se i tempi e i luoghi cambiano. Di conseguenza è il mito di qualcosa che non sa finire. E questo è la cosa peggiore perché se sai finire, allora puoi ricominciare.
Per quanto riguarda il Teatro della Fenice a Venezia, il concetto è pressoché uguale. Infatti quella struttura è andata distrutta da un incendio nell’Ottocento ed è stata ricostruita uguale. Poi è bruciata di nuovo circa un secolo dopo. Ed ancora una volta è stata rifatta uguale. Questo per Taviani non deve succedere, in quanto è una specie di follia portata all’estremo. Le cose, invece, andrebbero migliorate ad adattate alle nuove esigenze, anche di tipo visuale (senza rifare gli intarsi dei palchetti così come erano prima, persino con le striature del consumo).
Il discorso si sposta poi al sistema delle sovvenzioni sulle quali si regge l’arte teatrale.
Ciò che ha portato a far raccogliere tanta gente in sala per assistere a questo intervento è stato l’interesse per il teatro (oltre a curiosi più o meno appassionati di teatro, erano presenti anche esperti di chiara fama, come Federico Fiorenza, Gabriele Ciaccia e Giancarlo Gentilucci), quindi, stigmatizza Taviani, se lo Stato taglia le sovvenzioni, tutto sommato non va ad intaccare i teatri di ricerca perché questi, invece, vanno avanti per l’interesse che mostrano i suoi fruitori. Tagliare le sovvenzioni al teatro sarà, forse, la fine del teatro tradizionale, ma non di chi ne è interessato e porta avanti progetti artistici a livello personale, come era il gruppo che si raccoglieva nella stanza 26, oppure nella vecchia Casa del Teatro.
Vivere di sovvenzioni significa avere un lavoro e un pubblico sempre assicurato, ma anche dover soddisfare gli interessi artistici di chi da i soldi. Quindi, nel senso biologico del termine, dice Taviani, c’è della << corruzione >>, cioè l’ipocrisia di raccogliere dei soldi per qualcosa che piacerà ad altri e, dall’altro lato, la 'corruzione', intesa sempre nel senso biologico del termine, di dare (da parte degli assessori) dei soldi per qualcosa che ancora non si sa bene cosa sia. Lavorare da soli, invece, significa, forse, stare in ristrettezze, ma permette di fare quello che ci pare: si è più liberi.
E’ strabiliante, dice Taviani, come il primo dei due sistemi (cioè quello delle sovvenzioni) abbia funzionato per tanto tempo. Adesso forse le cose stanno cambiando e lo Stato ha tolto le sovvenzioni persino al Teatro Alla Scala di Milano che, dice lui, per sottolinearne l’estrema importanza, <<è una delle grandi droghe del pianeta>>.
Io aggiungerei che questo concetto vale per il teatro di ricerca perché il teatro tradizionale, invece, ha una valenza di tipo più sociale e quindi, per certi aspetti è un po’ come il teatro sacro del capro espiatorio dell’antica Grecia: serve per riunire il popolo come se fosse un rito propiziatorio.
La conclusione, per Taviani, è un tornare al concetto della Fenice: il professore ricorda che diventa importante capire che “ricominciare” significa fare tutto, tranne sognare di fare di nuovo quello che si faceva prima.

La professoressa Schino ha eviscerato tutti i significati che la parola “ricominciare” può assumere a livello culturale:
1. un valore poetico;
2. un valore di delicatezza semantica, in quanto non si può dire ad una persona di mezza età che comincia a fare un'attività, come la danza, che sta "iniziando" - come un bambino - a fare qualcosa, ma bisogna dirgli che “sta ricominciando” a danzare, …;
3. una valenza religiosa: la religione Cristiana Cattolica è la religione del “ricominciare” dopo che si è commesso un peccato; quindi si hanno le parabole del figliol prodigo e i sacramenti della confessione e comunione;
4. il valore del “ricominciare” è molto importante in Sant’Agostino, il quale ha riflettuto sul cosa facesse Dio prima della creazione e ne ha dedotto che anche per Dio la creazione è un nuovo inizio perché sicuramente faceva qualcosa anche prima; in questo la religione Cristiana si differenzia dai Greci che rappresentano la perfezione e, quindi, l’immobilità; il teatro, invece, non è immobilità, ma una materia organiza viva che cambia ad ogni replica;
5. ci sono, infine, i terapisti on-line, cioè psicologi che credono che sia importante parlare con un medico via e-mail perché scrivendo una persona poi rilegge quello che ha scritto e quindi può correggere eventuali errori; inoltre, quando una persona scrive, è come se “costruisse” un racconto “ricostruendo” i fatti. Il teatro funziona proprio in quest’ultimo modo.

Dopo di lei, ci ha pensato l’architetto Luca Ruzza a ricordare che un altro teatro, dopo che era andato distrutto da un incendio, è stato ricostruito perfettamente uguale: il Petruzzelli di Bari.
Per la serie di teatri distrutti da un incendio, poi, continua ricordando anche “Le Bouffes du nord” di Peter Brook a Parigi, il quale, però ha la particolarità che è stato ricostruito lasciando la parte alta originale. Infatti solo la parte bassa è stata ristrutturata, lasciando in alto il colore ocra rosso delle fiamme che hanno avvolto le pareti.
Ruzza, poi, espande l’analisi ai materiali utilizzati nella costruzione e si pone il problema del perché spesso non vengano utilizzati i materiali esistenti per realizzare un nuovo edificio. E porta l’esempio di Roma e della sua storia antica che, ancor oggi, si può leggere come una storia del riuso di materiali preesistenti per costruire altri edifici in luoghi poco distanti. Ruzza vorrebbe instaurare una discussione su questo tema e pensa di essere nel posto adatto perché L’Aquila deve essere ricostruita… ma il caso vuole che non ci siano architetti in sala ad assistere all’evento! Nonostante tutto egli non demorde ed informa i presenti di come funziona l’iter burocratico per professionalità come gli architetti: devono presentare al Comune una tavola di “Demolizioni (che fanno per poter costruire il loro edificio)” e una di “Ricostruzione (dell’edificio che intendono realizzare)”. Si domanda perché non esista anche una tavola del “Riuso (dei materiali esistenti che si intende riutilizzare)”.
Data la sua esperienza presso l’Odin Teatret, Ruzza ne approfitta anche per svelare uno dei segreti del fascino della sede del gruppo danese: il container che possiedono da 40 anni ogni 2 anni viene ridipinto! Quindi un “ricominciare” ogni volta.
Il “ricominciare” implica, quindi, la partenza dal passato per modificarlo ed adattarlo alle nuove esigenze.

Sul concetto di memoria delle cose passate, parla, poi, in un intervento intitolato “Infelix memoria, tenax memoria” (due concetti contrapposti che rimandano all’idea di una memoria che “non da frutti”, come l’albero da cui era ricavato il legno per le croci, e al concetto di una memoria tenace) un esperto nel campo antropologico, cioè colui a cui spetta il compito sociale di interpretare il presente e trasformarlo in un passato (da cui le cose possono aver tratto origine): Fulvio Librandi, ricercatore e docente di antropologia per l’Università della Calabria e collaboratore di Claudio La Camera al “Museo della ‘ndrangheta” di Croce Valanidi (RC), con esperienze teatrali alle spalle.
Come egli ricorda, la memoria ha una grande portata evocativa: comunica un’emozione, un’idea, un’appartenenza.
Il giorno stesso dell’inaugurazione, 03 novembre 2011, è una giornata riturale perché segna un prima e un dopo e quindi è un tempo di festa extra-ordinario.
La memoria, come dimostrerà facilmente, serve nei momenti difficili, che prima o poi arriveranno.
Il teatro è l’arte della memoria; ma è anche l’arte nella quale vige la dinamica del contrario. Ogni teatrante di una certa rispettabilità lo sa.
Da buon esperto di dinamiche psichico-mnemoniche, Librandi fa notare che bisogna distinguere tra memoria-archivio e memoria-forza. La prima contempla tutti i procedimenti meccanici che mirano ai dati immagazzinati (come le chiavette usb, oppure le poesie che sappiamo a memoria). E’ quella parte della memoria che ci aiuta nei momenti critici: per Gramsci, durante la prigionia, uno dei modi per non impazzire era quello di attingere alla memoria delle cose che aveva imparato. Nella seconda, invece, c’è il ricordo soggettivo ed è importante il tempo: tra il deposito del “dato” nella memoria e il suo recupero, cioè vita e quindi cose sempre nuove. Come diceva Svevo “Il passato è sempre nuovo”. Il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori. Quindi, il tempo trasforma la memoria (ecco perché l’indecisione si trasforma in rimorso e il dolore d’amore si attenua). Un’ulteriore differenza tra i due tipi di memoria sta nel fatto che la memoria-archivio lotta contro l’oblio, mentre la memoria-forza trova il proprio alleato proprio nell’oblio. Ecco perché per “essere” (degli esseri ben definiti e diversi dagli altri) è importante dimenticare.
Questi concetti valgono sia a livello individuale che collettivo, infatti imparare collettivamente significa contrapporre un metodo al caos.
In particolare, Librandi, riferendosi al teatro ricorda “Il rituale del disordine”, un capitolo di un libro scritto da Eugenio Barba, in cui l’ideatore dell’Odin ricorda la morte del padre avvenuta nel suo paese d’origine in Puglia e che quindi ha seguito i rituali locali. I rituali, cioè la memoria culturale, si fonda sulla poetica del ricordo (memoria-archivio) e sulla politica dell’oblio (memoria-forza).
Barba individua in Grotowski “il maestro del disordine”, cioè della memoria-forza.
Per Eugenio Barba, a differenza di altre autorevoli opinioni teatrali, l’attore in scena non è mai “nudo”, ma appare con altri costumi: questo detour è il momento della vita! Ma della stessa opinione era anche Pirandello quando diceva che l’uomo indossa sempre una maschera (anche l’attore).
Librandi continua dicendo che la memoria vivente è la memoria del testimone perché (oggi è così!) la velocizzazione del tempo trasforma in storia anche il breve periodo. La storia ufficiale è una storia della storia, cioè una confluenza organica delle varie storie.
La memoria collettiva è stata fondamentale per le lotte sociali. Impadronirsi dell’oblio è stato uno degli interessi di chi voleva dare senso alla storia e ai giorni presenti. Questo concetto non si riferisce solo a chi ha il potere, ma anche a storici, antropologi e artisti. Infatti, oggi è soprattutto l’arte ad assumere come tema la memoria. L’artista è un professionista della memoria.
Non bisogna poi tralasciare di osservare, secondo Librandi, che la memoria culturale è legata alla fama; per esempio, Dario sulla tomba di Achille non piange Achille come persona, ma la fama che gli aveva dato Omero!
Il concetto del ricordo contro l’oblio della memoria apparse già con Platone, il quale considerava l’alfabeto e la scrittura un grande condizionamento per la memoria, in quanto le cose scritte verranno ricordate a discapito di tutto il resto!
L’oblio, a livello culturale, dipende da interessi politici, sociali ed economici.
La costruzione di un “luogo sicuro” dipende dalla capacità di relazionarsi con l’”archivio” mnemonico.
Lo stesso vale per i luoghi spaziali: la costruzione della nuova “Casa del teatro” che poggia su un passato ben definito.
Dare senso alle cose è una delle capacità che hanno gli artisti.
Al di fuori degli “archivi” si depositano i rifiuti.
Per finire, Fulvio Librandi cita Lassmann, secondo cui solo la prospettiva dello studioso di scienze sociali o dell’artista  può “trasformare la prosa del rifiuto nella poesia del ricordo”.
Ecco il perché dell’intervento di vari studiosi in una inaugurazione di uno spazio artistico!

Altro studioso che ha preso la parola è stato Riccardo Brignoli che, oltre ad essere il Presidente degli Artisti Aquilani è anche uno psicologo-psicoterapeuta di orientamento non freudiano, ma seguace di James Hillmann.
Proprio dai suoi studi fa iniziare il suo intervento. Infatti spiega che Hillmann propone la psiche come il palcoscenico di un teatro. Poi si ricollega all’intervento dello studioso calabrese dicendo che la natura non ci ha costruito per ricordare tutto e che sia la neurologia sia l’arte hanno dimostrato che non è vero che la memoria è come un archivio. “La memoria è come la tiriamo fuori e la costruiamo quando la tiriamo fuori”, in quanto il trauma passato (che a volte è oggetto di rappresentazioni teatrali) spesso è frutto della fantasia e la psicoterapia lavora su questo.
Ci sono tre termini che rimandano a tre tipi diversi di memorie:
1) ricorda: rimanda alla memoria del cuore;
2) rimembrare: rimanda alla memoria delle membra, in quanto, come amano sostenere gli psicologi, il corpo racconta;
3) rammendare: rimanda alla memoria della mente.
Infine, il dott. Brignoli si rifà alla tradizione iconografica indiana del Mandala. Si tratta di un termine della cultura indiana che descrive delle geometrie (visivamente si tratta di disegni, molto colorati, suddivisi in forme geometriche, spesso simmetriche). E’ come la pianta di un palazzo (mentale, relativo alla propria psiche) in cui, in alcuni punti, sono collocate delle divinità, quindi il mandala è la costruzione della casa interiore. Quindi il corpo è un tempo/palazzo.
Quando fermiamo il tempo tramite una coincidenza, si evoca un ricordo. Quindi la costruzione di uno spazio è il tempo!
Queste forme emergono dentro di noi quando cerchiamo ordine, equilibrio, orientamento.
Quando si parla di “anima”, in psicologia, significa tenere vivo questo stato evocativo.
E’ importante conoscere queste cose perché oltre la memoria biografica c’è la memoria collettiva ed essa funziona più o meno allo stesso modo.
Ecco perché una immagine spesso utilizzata in psicologia è il quadro della “Scuola di Atene” di Raffaello, come fosse esso stesso una forma di mandala. In esso c’è la rappresentazione di un tempio con Platone e Aristotele (raffiguranti Leonardo Da Vinci e Michelangelo) al centro.
Il motivo della questa scelta è anche un altro. Infatti nel Rinascimento era in auge la Mnemotecnica, teorizzata da studiosi come Giordano Bruno, che sosteneva come il ricordo potesse creare realtà creative. Ecco il perché dell’amore che riversavano sulle opere dei classici e le riproducevano attualizzandole.

Nei giorni successivi gli incontri si sono susseguiti intensamente alla “Casa del teatro”, tenuti da esperti e da professionisti del settore teatrale come il Marcello Gallucci, Gabriele Ciaccia e Leris Colombaioni.
Tra gli eventi da ricordare c’è stata la replica dello spettacolo teatrale “Sete”, di e con Giulio Votta (attore degli Artisti Aquilani), diretto da Emilio Ajovalasit del Teatro Atlante di Palermo. Questa realtà teatrale opera nel quartiere palermitano di Ballarò, che è uno dei più a rischio della città. Il rapporto lavorativo con Giulio Votta è nato in un incontro organizzato da Linea Trasversale, una rete di gruppi (tra i cui fondatori figura anche Maria Ficara del Teatro Proskenion… di cui parlavo all’inizio di questo articolo) che organizza incontri in cui ci si scambia esperienze teatrali.
La pièce, una interessante rappresentazione di teatro sperimentale, parla dei pentiti di mafia per questioni di coscienza.
Quest’ultimo tema, la mafia, è stato il clou dell’ultimo giorno di festeggiamenti, il 06 novembre 2011, con la presentazione del libro “I ministri del cielo” di Lorenzo Barbera (il moderatore era Romano Mazzon), in cui si parla della ricostruzione della Valle del Belice dopo il terremoto che colpì questa parte di Sicilia, in cui lo stesso Barbera per anni si è operato per portare sviluppo e contrastare quella mafia derivante non solo da brigantaggio e analfabetismo, ma anche quella che aveva contaminato i cosiddetti colletti bianchi, cioè la borghesia mafiosa dei liberi professionisti.
E l’unico modo per sconfiggerla era che il popolo ne parlasse.
Già ad ottobre scorso, presso la “Casa del Teatro” di piazza d’Arti, prima ancora dell’inaugurazione, gli Artisti Aquilani avevano organizzato un ciclo di conferenze contro la mafia, dal titolo “Antenne di memoria” in cui era stato allestito lo spettacolo “Sete” e c’erano stati interventi del regista Claudio La Camera, del teatro Proskenion, realtà artistica che lotta contro la mafia, e con Emilio Ajovalasit del Teatro Atlante.
A portare una ulteriore testimonianza della lotta per costruire qualcosa di migliore, oppure per preservare il "migliore", sono poi intervenuti rappresentanti del movimento No-TAV della Val di Susa, del comitato aquilano 3.32, rappresentanti dell’Asilo Occupato di L’Aquila e di Epicentro Solidale. Infine, da ricordare, è la presenza di Sabina Guzzanti e Simona Panzino che hanno raccontato (il moderatore era Claudio La Camera, regista del Teatro Proskenion e che collabora anche col Museo della 'ndrangheta) cosa sta facendo la Società Kamene nell’Ex-Cinema Palazzo di Roma. Secondo le loro opinioni, lo Stato italiano voleva adattare quel luogo ad un Casinò (luogo di giochi d’azzardo) per raccogliere soldi da destinare alla ricostruzione di L’Aquila, senza pensare che così avrebbero “spellato” molte persone facendoli credere al mito-utopia della dea bendata.